L’eclissi dell’occhio

Qualche cosa di informe.

Ci sono due modi di guardare la realtà, di porsi dinanzi ad essa, scrutare verso Occidente o verso Oriente. Non si tratta, naturalmente, di una dislocazione meramente geografica dello sguardo ma di una divergenza di costume in senso quasi cortese, inteso come atteggiamento vincolante e prova da superare: da una parte si osserva, alla giusta distanza, l’involucro esterno, la serie delle pieghe che turba il risvolto dell’abito, le labbra rosse della ninfa dal passo danzante, colmo di desiderio, la smorfia di dolore della donna vestita a lutto, la veduta della città dall’alto “del bosco”, intesa come serie virtualmente infinita di predicati. Dall’altra si tratta di osservare a distanza ravvicinata (ma anche ponendosi da troppo lontano, dallo spazio, o in balìa di un qualche accidente che comporti una sorta di oscillazione e alterazione del visivo), procedendo in avanti fino a osservare nient’altro che l’insieme di figure che han trovato il loro spopolatore, e quindi la macchia, la forma disfatta, l’alone, la risonanza dell’immagine.

Nel secondo caso, che si ricollega probabilmente a circostanze futili (e forse, addirittura, gratuite), si tratta di sperimentare il mistero insondabile (vertiginoso e necessario come un’ingiunzione, improvviso e inaspettato come l’emersione di un sintomo), dell’infinita prossimità (che è anche quella dell’abbraccio, o del coito). Nel primo ci si trova invece dinanzi all’esuberanza erotica della bella parvenza e del corpo tutto per sé; nel secondo caso si sperimenta la perdita definitiva (compensata, magari, da un’allucinazione), nel primo il possesso, la signoria dello sguardo.

E’ come osservare una donna magnificamente agghindata dalla prua di una nave da crociera che si allontana, sonnolenta, dal molo. Ella agita il fazzoletto per salutare qualcuno (il suo innamorato?). All’inizio, ci sembra di poter contare finanche le singole perle bianche della sua collana, di osservare la riga nera dei collant che divide i polpacci e finanche (ma è un abbaglio?) la lacrima che le solca la gota. A poco a poco, i particolari cominciano a venir meno e non distinguiamo che la blusa e il colore fiammante del fazzoletto. Poi, poco altro se non tre macchie leggermente ellissoidali e sfocate, quella centrale più grande delle altre due. Infine, più nulla.

La pittura di Alessandro Saturno sembra bloccarsi a metà fra quanto abbiamo detto. Fra il possesso e la perdita definitiva, fra la percezione del corpo intero e il Nevermore della nave salpata, fra il ricordo che ancora persiste come deposito nel fondo della retina e la donna intera. Né fort, né dà, né apparizione né scomparsa, i suoi quadri si collocano in mezzo, in quello stato informe che sta a metà fra la forma e la sua negazione; come scrive Sant’Agostino, si tratta di “immaginare un qualche cosa che stesse fra la forma e il niente, non formato e non niente, un senza forma quasi niente” che si situa nel passaggio di stato, nell’attraversamento di una soglia elastica come una membrana, dove i corpi “cominciano ad essere quello che non erano, ed ebbi il sospetto che il passaggio da forma a forma avvenisse per qualche cosa di informe e non per il nulla assoluto”.

E’ la riscoperta, in pittura, appunto, dell’informe, dove la figura che si sforma, la figura deglutita e di getto rovesciata, è in realtà una parte di sé violentemente proiettata al di fuori dell’io, dal di dentro verso uno sfondo limaccioso che si pone come lungo-fiume senza parapetti.

Ma stare a metà, infra, non significa, è bene chiarirlo subito, non avere, semplicemente, una forma definita. La figura, una volta presa nel vortice della dissomiglianza, diventa catalogo di possibilità, palinsesto dove l’assenza viene scongiurata da una presenza plurima che colma fino all’orlo, eccedendola, la lacuna della mancanza.

Il risultato, è una serie di figure che assomigliano al lembo sdrucito della veste dell’angelo che, secondo la leggenda shinto, il pescatore trovò agganciata ad un ramo di pino sulla spiaggia: forme sfilacciate, che si dipanano contraendosi al minimo refolo di vento.

Queste sono le figure di Alessandro Saturno, simili a quelle alghe fosforescenti, a quelle misteriose formazioni vegetali intraviste in uno stagno, dove al disordine congenito dell’ organismo elementare preso nel flusso della corrente si aggiunge il filtro astraente dell’acqua e l’instabilità provocata dalla lieve increspatura dell’onda. La cosa strana è che queste figure, che presentano indubitabili legami (oltre che con le piante acquatiche) anche con le sontuose muffe azzurrognole, verdastre, argentate, che proliferano al di sopra di un gustoso formaggio camembert, sono assimilabili -e si deve intendere l’operazione come in tutto e per tutto simile ad una misteriosa trasmutazione alchemica- meglio, sono imparentate con i corpi sottili dei risorti! Ecco che nella pittura di Alessandro Saturno, il basso corporeo, il liquame, il resto preso nel flusso, adagiato sul letto della materia, e l’azzurro del cielo, l’oltremondano, certe golosità legate alle sedimentazioni e alle escrezioni proibite e, insieme, la vertigine di una visione celeste, finiscono per toccarsi.

Davanti alle opere di Saturno entrambe le possibilità contraddittorie sono concepite simultaneamente e, compresenti all’interno della stesso frame, in una sorta di montaggio delle attrazioni, sembrano voltarsi verso di noi e dire: io, sono un altro.

Ecco allora che l’informe, è insieme, sia, come dice Bataille, un termine che serve a declassare, a degradare, “simile a un ragno, o a uno sputo” (se si parte dall’alto, dal polo angelico per giungere alle “lunghe macchie che assumono forme ombrose incerte come depositi alluvionali”) sia tutto il contrario, ovvero la possibilità (se si procede stavolta dal basso verso l’alto, dal tratto non chiuso della macchia dai contorni sfumati per giungere alla figura dal corpo sottile contratta nell’urlo o nello spasimo) di accedere ad una elevazione violenta che produce una specie di rovesciamento dell’occhio. Si assiste allora alla creazione di una zona tropicale, strada verso la vaghezza, dove tutti i fenomeni scorrono verso l’indistinto, come una cascata: non più rivestimento carnale (Tiziano e l’ossessione per l’incarnato) ma un incessante, ardente e insieme dolce, rifluire.

Action painting. Elementi di fisiologia angelica.

“Alla percezione, al desiderio carnale era subentrata l’assenza, e l’incrinatura sulla lastra di vetro che separa il reale dall’irreale era diventata una crepa dalle dimensioni così vaste che era possibile attraversarlo. L’impossibile, adesso, era possibile sfiorarlo” (Adam Doyle).

I corpi risorti sono corpi sottili, possono essere all’istante in ogni luogo; Son corpi diafani, trasparenti come cristallo e luminosi come l’oro; Non mangiano nulla, essendo la bocca sempre colma di un aroma delizioso; risorti con i loro organi, ne faranno un uso particolare, separato dalla sua funzione. Si immagini di avere un motore a scoppio, e utilizzarlo, invece che per correre su un auto, per farne un apparecchio che serva ad illuminare una stanza quando fa buio; Analogamente dell’organo non viene disattivato la potenza, ma la funzione: la bocca che bacia, il membro che penetra…non sono più organi di un piacere a due, ma subentra in loro la gloria, che li trasfigura in un movimento a vuoto. E’ quello che accade nelle figure di Alessandro Saturno: completamente disattivata ogni funzione, essi non fanno, non compiono alcuna azione: il fatto è che questi corpi sottili sono ebbri. Ebbri di beatitudine. Urlano, si dilatano, sono scomposti anche nella posizione del mezzo busto, dove una lunga serie di fattori di dissipazione intervengono a turbare il loro sembiante (la cosa “rivestita di una forma più bella”).

I corpi sottili di Alessandro Saturno si comportano come ondine, esseri elementali che stimolano, eccitano il nostro desiderio. Ma l’oggetto del desiderio è aleatorio, capriccioso, indisponibile (noi crediamo, addirittura, losco, quando è costretto, dietro l’incalzare delle nostre domande sospettose, a mentire):

In realtà egli non può assoggettarsi ai desideri del soggetto, pena la comparsa, secondo la tradizione, dei cinque segni di decomposizione; pena la morte. E’ per questo che nei quadri di Saturno le figure sono sempre mobili: esse sono implicate in un movimento vorticoso di divenire che è l’unica condizione possibile della loro esistenza.

E’ possibile dividere figure siffatte in tre parti o zone di affezione, chioma (o alone o aurea), volto (tratti di volteità), busto. A volte il secondo, a volte il primo avranno valore preponderante. Se il quadro infatti è un torso, un torace, al posto della chioma-aurea avremo il medesimo “calore bianco” che passa lungo i bordi alterandoli. Il quarto elemento è il fondo (o faglia aurifera).

Si prenda, a mò di esempio, l’opera “La fine è l’inizio”.

Si tratta di una figura colta nel bel mezzo di uno spasmo, simile a quelle figure di annegati che vengono trascinati (livello del fondo) nelle profondità degli abissi dall’energia delle correnti sottomarine, e insieme, ai fantasmi del desiderio, subacquei, del film La Donna del Lago di Renoir e l’Atalante di Vigo . Per quanto concerne la zona di affezione del volto, si vede come essa sia sottoposta ad una specie di raddoppiamento che serve a far passare ogni elemento da una intensità all’altra: l’orbita oculare è raddoppiata dal foro della tempia (a sua volta raddoppio del cavo auricolare), la bocca dalla protuberanza della mandibola, la piega carnosa del collo (vagamanete ingresiana), infine, è raddoppiata dal brano cadente della guancia (nello stesso tempo, contrazione tubolare della mandibola). Lo stesso braccio diventa orlo azzurrastro che oltrepassa, liquido, i confini dell’arena di contenzione della tela. I singoli tratti vengono allora disposti fra loro in modo che ciascuno rispetto agli altri manifesti una sorta di passaggio di stato da un’intensità all’altra, da una dimensione all’altra, da una qualità in una qualità seconda e diversa.

La stessa melanconia del volto sembra il preludio allo stadio successivo, che è quello della dissipazione della forma, della festa, della perdita di sé, percezione di una condizione di emozione intensa dove morte e vita si toccano e gli estremi del possibile diventano tangenti.

Il risultato è un’immagine carica di energia emotiva e simbolica, che sembra appartenere, più che al campo della pittura, a quello della vita vivente dell’esistenza archetipale.

Lo spazio bianco, in basso, infine, merita una considerazione approfondita. Esso non è lo spazio, ad esempio, della pittura Sung, spazio bianco verso cui tende lo sguardo del saggio, stato contemplativo, e nemmeno (come accade, poniamo, in Picasso), mise en abyme della tela, inserto di realtà bruta nella finzione felice dello spazio pittorico. Si tratta, invece, dello spazio della pittura, luogo dove (come accade ai teloni di plastica bianca posti sotto il gruppo dei condannati -e che Ejzenstejn, provocatoriamente, colloca, nella sequenza di fucilazione del Potemkin, sopra– per raccoglierne il sangue, l’effusione del liquido) la materia sgocciola, si deposita, si sfila e vien meno. In questo luogo residuale è allora possibile, letteralmente, tirare i fili della trama pittorica, scorgerne il resto, la traccia rimanente (sotto forma di rigagnolo o di lembo azzurro), che si deposita come “something in the way”: qualcosa di accidentale e vagamente organico.

L’immagine Aperta. Involucro e visione autoptica dell’Interno.

Condizione preliminare all’apertura dell’immagine è il guardarla fissamente. Si tratta di sostituire (come fa Proust quando guarda Albertine che dorme), alla fanciulla addormentata la sua pura esistenza fisiologica. Bisogna scendere allora profondamente nella figura, nel suo sonno, come chi si scopre a fissare a lungo una stella, una nube, una macchia scura in mezzo ai rami, alcuni pesci guizzanti nel fondo di un canale. Solo così essa può aprirsi.

“Si accorse ancora una volta che i suoi occhi cercavano di vedere dietro gli oggetti. Se li avesse lasciati fare, il mondo circostante, ancora una volta, sarebbe crollato come una diga a causa della falla aperta dal suo sguardo.” (Mishima, 1).

Cosa accade quando una figura viene resa oggetto di una serie di procedimenti di detection tesi alla rivelazione di un segreto? Accade che l’immagine viene slabbrata, aperta, presa nel letto della materia.

Se il vedere procede, in pittura, al di là dell’essere, assumendo le ali di un uccello, il confine della circoscrizione si sfalda fino a diventare “strato di chiarezza” posto secondo la logica a palinsesti della sovrimpressione multipla. E’ l’interno delle figure di Alessandro Saturno, dove tutto si mischia, tutto si associa, dove si tratta di vedere la carne che non si vede mai, il fondo delle cose, il rovescio della superficie. Ciò che siamo. Ciò che siamo stati: “tu sei questo. Tu sei questo che è quanto di più lontano da te, questo che è ciò che vi è di più informe” (Lacan).

Ma subito dopo, occorre risalire (vederla svegliarsi), verso ciò che saremo, desiderio che ci muove senza sosta verso l’oggetto e che implica il sorgere sulla carne stessa della figura, investita di immaginario, di figure provenienti da un’altra scena (da altri luoghi, da altri tempi).

E’ il livello dell’involucro, dove, in Alessandro Saturno è possibile accorgersi, ad esempio, di certi richiami al barocco napoletano per la violenza tortile nel movimento di ascesso-ascesi delle figure, o alla tradizione delle Madonne Bizantine per quella ricerca ostinata di frontalità ieratica nei mezzobusti.

Si tratta di essere fedeli, fino in fondo, ad una specie di percorso generativo.

Uno stato intenso si verifica ogni qualvolta la forma particolare sta per scomparire eppure ancora resiste e si oppone, non avendo la forza né di conservarsi integra né di scomparire del tutto. Un passo in avanti, e vedremo la figura mutarsi in sostanza liquida o forse addirittura gassosa; un passo indietro, ed ecco ricomparire la materia solida e inerte, la carne rilucente in una postura remota e attraente.

Ecco il senso di questa implacabile liquefazione delle strutture di contenzione, di questa fuga flaccida della sostanza che si rovescia e si spande, di queste figure che rigettano sé stesse: è il tentativo di ricondurre la vita della forma alla parte amorfa, maledetta, informe, e, insieme, in virtu’ di quel miracolo proprio degli stati di intensa emozione che vuole che i due estremi del possibile, orrore e bellezza, divengano tangenti, consegnarla nel medesimo istante alla parte opposta, quella della bellezza ardente, della fanciulla vista dal piroscafo, con una lacrima che le solca, per un istante miracoloso e pieno di grazia, la guancia.

Giovanni Festa